lunedì 25 luglio 2011

“ogni metro potrebbe essere l’ultimo”

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Qui in Afghanistan “ogni metro potrebbe essere l’ultimo”

Lo aveva scritto in una lettera Matteo Miotto, il caporal maggiore di 24 anni ucciso da un cecchino nella valle del Gulistan. E al nonno alpino: “Ti sbagliavi, la guerra l’ho 

vista anch’io”

"Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi". CosìMatteo Miotto, l'alpino ucciso in Afghanistan, raccontava la tensione delle perlustrazioni con il 'Lince' nella valle del Gulistan in una toccante lettera pubblicata dal sito on line del "Gazzettino", poche settimane dopo l'agguato in cui, il 9 ottobre, erano rimasti vittime quattro alpini del 7/O reggimento di Belluno. "La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo - spiegava Matteo - finalmente siamo alle porte del villaggio... Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame...".

Nella lettera, l'alpino di Thiene, ringraziava in Italia quanti "vogliono ascoltare i militari in missione, e ci degnano del loro pensiero solo in tristi occasioni, come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere". La missiva era stata accompagnata sul sito del quotidiano veneto da una foto di Matteo sulla torretta di un blindato, con in mano la bandiera tricolore sulla quale aveva aggiunto a pennarello 'Thiene'.

"Corrono giorni in cui identità e valori - proseguiva il militare vicentino - sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo...". "Come ogni giorno - diceva - partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgentes avvistati, su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria. Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince".

Matteo aveva anche parole di grande comprensione e ammirazione per la popolazione afghana. "Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli - sottolineava - hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano". "L'essenza del popolo afghano - rifletteva il giovane alpino – è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre".

"Allora - proseguiva la lettera - riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi". Ecco allora quel rapporto particolare che i militari italiani sanno creare nei paesi teatro delle missioni di pace: "Quel poco che abbiamo con noi - scriveva Matteo - lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi. Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati...". Già, lo spirito alpino, quello che faceva tornare Miotto a ripensare ai suoi dialoghi sulla guerra con il nonno. "Mi ricordo - scriveva - quando mio nonno mi parlava della guerra: 'brutta cosa bocia, beato ti' che non te la vedare' mai...' Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi 'visto, nonno, che te te si sbaia'...". Alla fine, la firma: "Caporal Maggiore Matteo Miotto Thiene (Vicenza) - Valle del Gulistan, novembre 2010".





All'articolo sta allegato un video,in cui il il collega legge la lettera che ha scritto.
Per ogni fratello in meno,in cielo sta un angelo in piu'.
un fiore,stk

domenica 17 luglio 2011

Per chi non conoscesse Bakwa e il coraggio dei nostri ragazzi in Afghanistan

Nella base di Bakwa, il posto più pericoloso del Regional Command West
 La base del  di Belluno di Bakwa rassomiglia alla Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari. Purtroppo, però, in  i Tartari di Dino Buzzati non si fanno solo attendere, ma esistono e si chiamano “insurgents”, ovvero briganti e, nella maggior parte dei casi, sono i talebani. Gli uomini del reggimento bellunese, coadiuvati da colleghi di altri comparti, sono arrivanti alla base, battezzata (ovviamente) Camp Lavaredo, a metà agosto. Gli americani e i georgiani, gli unici militari presenti in quell’area della provincia di Farah prima dei nostri, avevano lasciato giusto le mura perimetrali. La prima cosa che hanno fatto gli alpini è stata quella di costruirsi una così detta «bolla di sicurezza» per poter operare in libertà. Poi, sotto il caldo degli oltre 40 gradi estivi, hanno costruito tutto il resto. Ovvero il bunker per ripararsi dalle aggressioni, la mensa, (per il primo mese si sono cibati quasi esclusivamente di razioni K americane), i bagni (in principio hanno dovuto accontentarsi dei sacchetti igienici), poi le tende per dormire (in estate potevano dormire al fresco sotto il cielo stellatissimo di Bakwa) e le strutture per le varie cellule del reggimento.  Ogni giorno gli alpini lavorano su un terreno impolverato da una costante sabbia, che ti riempie scarpe, vestiti e il respiro. Sembra borotalco. Il 7°, in, è una famiglia allargata. Si sente nell’aria ed è facile entrare a farne parte. Si scherza con le provenienze: «lui è polentone, lei è terrona» dicono tutti sorridendo. In centro al Camp Lavaredo c’è la cappellina in legno in ricordo di Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi, Sebastiano Ville, Marco Pedone saltati su un ordigno il 9 ottobre scorso, nel giorno del ricordo della tragedia del Vajont. Mancano a tutti alla base. Sono i primi caduti di tutte le missioni del 7°. L’appuntamento col destino ha colto tutti impreparati. Sono morti svolgendo il loro valore: dovevano portare in salvo una settantina di autisti afghani, dopo che due erano stati freddati con un colpo alla nuca e uno sgozzato, perché considerato traditore. Rei soltanto di aver fornito materiale al militari della missione Isaf. Una delle principali attività del ragazzi è quella del pattugliamento della zona, rischiosa, ma necessaria. Non sono mancati episodi in cui gli “insurgents” hanno aperto il fuoco contro la base di Bakwa. 

Questo articolo è di circa un anno fa..ma e purtroppo il nome di questa base ultimamente ci ha dispensato brutte notizie e dolore per i parenti e per i cari di questi beneameti colleghi che si mettono in gioco la'..
 Un mio pensiero a loro e un fiore.
Stk.